E tu hai regalato un libro?

Ieri, come ricorda anche Alberto, era il giorno stabilito per regalare un libro ad uno sconosciuto.

L’idea (che ha un suo spazio anche su facebook) era di base questa: “Il 26 marzo 2010 voi prenderete questo libro e lo regalerete ad una persona a cui non avete mai parlato. Sì, proprio uno di quelli che vedete tutti i giorni.” , ed era spiegata per bene nel suo complesso qui.

Negli ultimi giorni l’attenzione anche in rete si è molto concentrata su altre questioni e magari non tutti si sono ricordati.

Personalmente mi è capitata l’occasione qualche tempo fa e così ho anticipato la cosa di qualche settimana, e per fortuna, perché problemi di famiglia mi tengono bloccato a casa in questi giorni. Mi è capitato di incontrare una persona che seguivo in rete, quindi di per se non una totale sconosciuta, anche perché incrociata l’avevo già incrociata ad alcuni eventi, ma faccia a faccia era la prima volta e mai ci era capitato di parlare prima di quel momento. E’ finita così quasi per caso di trovarci a passare davanti a Feltrinelli, ed entrambi si aveva voglia di comprare un libro. Allora ci è tornata in mente questa cosa e abbiamo deciso di sceglierne tra gli scaffali, uno che ci era piaciuto particolarmente, e di regalarcelo a vicenda. Una cosa molto carina, devo ammettere. La mia scelta è ricaduta su “Tenera è la notte” di Francis Scott Fitzgerald che mi colpì tantissimo la prima volta che lo lessi e che a tutt’oggi rimane uno dei miei libri preferiti.

E voi avete regalato un libro? Quale?

Il 26 marzo regala un libro a uno sconosciuto

Leggendo il Blog di Alberto questa mattina sono venuto a conoscenza di questa idea che devo ammetterlo, mi piace assai. Il 26 marzo regala un libro ad uno sconosciuto. Un gesto pacifico, stupendo. Cosa c’è di meglio che uscire e regalare parole, così, senza volere indietro nulla, gratuitamente? La gratuità del gesto non ha prezzo, davvero! Lo trovo poi uno stupendo atto di pace regalare una delle più potenti armi pacifiche che esista sulla faccia della terra. E proprio oggi che la cultura, il sapere sono così minacciati, combattuti diventa più che mai significativo.

Allo stesso modo di Alberto mi permetto di prendere anche io dal blog originale:

Ebbene sì. La cosa che mi inquieta molto è la surreale lontananza di persone fisicamente vicine. Ci saranno persone che (pendolariando da anni) vedo ormai da tempi infiniti a cui non ho mai rivolto parola e viceversa. E’ triste vedere come si può passare un’ora in un treno senza rivolgere parola a nessuno (sì sì, lo faccio anche io!). Com’è che accade ciò? Beh, la mia personale teoria dell’estraniamento routinario narra di una consuetudine che porta a creare uno scudo di serietà tra noi e il nostro prossimo. Tante volte infatti succede di rompere il ghiaccio proprio quando qualcuno rompe fisicamente il ghiaccio, rovinandoci sopra e provocando ilari risa tra due sconosciuti. E dobbiamo allora spaccarci una gamba per fare amicizia?

Non fare del male, non vuol dire fare del bene. Non uccidere qualcuno, non vuol dire curarlo. Volere bene a qualcuno, non significa fare il suo bene. Esigere rispetto, non vuol dire meritare rispetto. Occorre qualcosa di concreto, un gesto all’apparenza piccolo, ma dentro molto forte. Una piccola azione concreta che scalfisca un po’ quella stramaledetta scusa che ci porta spesso a dire “Sì, ma ci sono i bambini che muoiono di fame in Africa, a che serve fare questo?”. Bene, bimbi dell’Africa, ci stiamo attrezzando, ma prima di arrivare da voi dobbiamo fare tanti piccoli scalini, perché ora come ora non siamo in grado di aiutarvi. Dobbiamo diventare persone migliori e non lo si diventa da un giorno ad un altro, ma (leggere in crescendo) cazzo, fate un cavolo di piccolo passo che poi gli altri verranno da soli.

Il 26 marzo 2010 ognuno di voi avrà in mano un libro, una storia che considera bella, dei personaggi che ha amato. Avrà ciò in mano, nella propria borsa o dove volete. Il 26 marzo 2010 voi prenderete questo libro e lo regalerete ad una persona a cui non avete mai parlato. Sì, proprio uno di quelli che vedete tutti i giorni. Alzerete il vostro culo, schiarirete la vostra voce e metterete qualsivoglia infondata vergogna da un’altra parte. Prenderete quest’infuso di rivoluzione e lo donerete ad un vostro compagno. Lo guarderete negli occhi e sorriderete.

Personalmente per restare in tema con quanto scritto nel precedente post ho deciso che lo farò entrando in un bar, sceglierò due persone che mi colpiscano a pelle e regalerò un paio di libri.

Uno sarà sicuramente in Asia di Tiziano Terzani, perché è davvero uno di quei libri che nel racconto/cronaca dell’autore ti trasporta con la mente nei posti percorsi dalle parole oltre che  aiutarti a comprendere tanto di quello che è stato di quei paesi e del perché di conseguenza oggi forse sono così. Al secondo ancora non ho pensato

E voi? Lo farete? Che libro regalereste ad uno sconosciuto?

(esiste anche un gruppo e una fan page su facebook)

Le parole giuste

Qualche ora fa scrivevo su ff della mia volontà di rinchiudermi da feltrinelli e passare li qualche momento della giornata vagando tra gli scaffali, da un titolo all’altro, da questo a quell’autore, gironzolando come un viandante in cerca delle parole giuste. Le parole sono importanti, ma trovare quelle giuste è impresa assai ardua. Me ne rendo conto ogni volta che mi accingo a scrivere qualcosa su questo blog. Karl Popper aveva ragione quando diceva che “Chi ha da dire qualcosa di nuovo e di importante ci tiene a farsi capire. Farà perciò tutto il possibile per scrivere in modo semplice e comprensibile. Niente è più facile dello scrivere difficile.” e aveva ragione da vendere. Dopo tutto non era l’ultimo dei babbei piombati su questo pianeta. Ma come le trovi le parole giuste quando scrivi se come diceva Marguerite Duras “La scrittura è l’ignoto. Prima di scrivere non si sa niente di ciò che si sta per scrivere e in piena lucidità.” ? Ed è a questo punto che sorge la sfida. In quella capacità nel flusso dei pensieri che mano a mano si trasformano in linee e curve con un senso, ieri tramite una penna, oggi sempre più spesso tramite una tastiera. E’ in quel breve momento, che passa tra la tua mente e la mano, che la parola giusta si manifesta, ed è li che la devi cogliere rapida. Ma raramente ci sono riuscito. Però scrivere per me è fondamentale come respirare. La mattina quando mi sveglio prima del caffè e prima ancora della sigaretta penso a quante cose avrei in mente da poter scrivere e raccontare e mi ritrovo sempre ad immaginare un mondo in cui non esista la possibilità o la capacità di scrivere. Tutte quelle parole giuste chissà che fine farebbero, costrette magari ad una vita di prigionia nella nostra mente. Perché è vero si, che si possono pur sempre far uscire dalla bocca, ma ci sono parole che non si possono dire, che devono essere scritte, fissate! Così, qualche ora fa scrivevo su ff della mia volontà di rinchiudermi da feltrinelli e passare li qualche momento della giornata vagando tra gli scaffali, da un titolo all’altro, da questo a quell’autore, gironzolando come un viandante in cerca delle parole giuste. Perché le parole sono importanti ma un uomo non può scrivere bene se non è anche un po’ un buon lettore, diceva Clement Marot

La mia prima volta

Le tre verità:

La prima verità è che questo post, a discapito del titolo, non parla di sesso, ma di libri. Mi dispiace.

La seconda verità è che probabilmente lo spazio di un post non basterebbe a contenere quanto ci sarebbe da dire sull’argomento, e forse sarebbe più adatto un libro, un libro per parlare del primo libro.

La terza verità è che non voglio parlare esattamente della prima prima volta in cui ho aperto un libro per leggerlo, ma della prima volta in cui ho Letto, con la L maiuscola, un libro. E credo ci sia una bella differenza.

Come in tutte le cose c’è prima volta e prima volta, e non è detto che l’una escluda l’altra. Anzi!

C’è la prima volta in cui ancora acerbo e puzzolente di latte ti mettono un libro in mano, magari pieno di figure, magari uno di quelli pop up, di quelli che quando giri le pagine la figura si gonfia ergendosi davanti alla tua facciotta paffuta, e quella serve a metterti davanti al fatto che nella vita esiste tale strumento. Poi c’è la prima volta in cui, magari alle scuole, ti mettono in mano un libro, questa volta con le figure che rimangono incorniciate sulla pagina, ma accompagnate da testi brevi e a caratteri grandezza stile insegna della Coop. Un libro tipo Cipì. E quello serve a metterti di fronte al fatto che esistono strani geroglifici (ma tu ancora non lo sai che cosa siano i geroglifici, povera stella), trattini e lineette nere che tu imparerai a decifrare e a interpretare dandogli un senso logico, in grado anche di mettere in moto il cervello e di materializzare immagini nella tua mente man mano che proseguirai nell’operazione. E poi c’è la Prima volta in cui Leggi un libro. Quella che interessa a noi.

La prima volta in cui tu, autonomamente, decidi di prendere in mano questo strano oggetto per immergerti in quello che ha da dirti, lasciandoti trascinare in quel turbinio di emozioni, immagini e sensazioni che solo un libro, io credo, può regalarti. E’ come nel sesso. C’è prima volta e prima volta. C’è la prima volta in cui ti misuri fisicamente con un partner, e fai sesso, e la prima in cui con un partner fai l’amore. L’atto pratico è lo stesso, sono l’approccio e le implicazioni che cambiano e ti cambiano poi per sempre. A quel punto, scalato il gradino, non si torna indietro e il mondo che ti si apre cambia la tua percezione delle cose.

Dunque, dicevo del Primo Libro. Avevo sei anni su per giù, forse qualcosina in più. Ed ero a casa con la febbre, ma non stavo così male fisicamente da non riuscire ad interagire col mondo. Preso dalla noia – e un bambino a quell’età, lo sappiamo, si annoia di tutto dopo cinque minuti e ogni cinque minuti- mi alzai dal letto e andai a rovistare nel baule che stava nel corridoio che separava la zona giorno da quella notte. Non lo avevo mai aperto quel baule, e quindi non immaginavo minimamente quello che ci avrei trovato dentro: Libri! Libri ancora incelofanati, libri che, avrei scoperto poi in seguito, erano stati in parte regalati dai parenti nei due anni precendenti (“ma legge già tuo figlio? Ha 3 anni!”. Certo un volumone più pesante di me da 200 pagine spesse era esattamente quello che mi aspettavo a tre anni, come se il pongo o le macchinine non contassero una cippa per un povero maschietto in tenera età) e in parte accumulati dai miei tra le memorabilie letterarie della loro infanzia.

Lo dirò sinceramente, fino a quel momento l’idea di aprire un libro per i fatti miei non mi aveva minimamente sfiorato, mai! Ma aprendo il coperchio di quel baule ero stato sopraffatto dalle illustrazioni di copertina che già di per se erano la porta su un mondo stupendo. Mondo narrato da strani signori con nomi tipo Salgari, De Amicis, Collodi o decisamente impronunciabili per me, come ad esempio Alexandre Dumas, o Ferenc Molnár, e ancora London, Twain, Stevenson, Kipling, Roald Dahl. Insomma, nulla di eccezionale, i classici autori che si regalano ad un bambino che si appresta a crescere. Erano tutte edizioni con caratteri che sarebbero risultati troppo grandi anche per la mia zia ormai centenaria. Ma ormai il patatrac era combinato.

Passai almeno venti minuti in bilico sulla pancia, con la testa completamente immersa in quello strapiombo colmo di disegni e lettere. Non volevo prenderne uno a caso. In fondo ero consapevole che quello sarebbe stato il mio Primo, con la P maiuscola. Esercitavo per la prima volta quella che potremmo definire la mia “autodeterminazione culturale”. E benchè non sapessi all’epoca dell’esistenza di un concetto quale quello di autodeterminazione ero comunque, nel mio cervello di pupo, arrivato ad una sorta di conclusione simile, se simile può definirsi la visione del concetto vista da un bambino in relazione a quella espressa ai più alti livelli intellettuali. E poi dicono che i bambini son tardi.

Appeso al bordo del Baule estrassi un libro sulla cui copertina spiccava un lupo orgoglioso in mezzo a quella che, se non ricordo male, era una distesa di neve. Mi rifugiai in camera e cominciai a leggere. Devo ammettere che la fatica fu molta, e che parecchi termini (molti, moltissimi) mi sfuggivano, ma l’idea, il contesto, la storia pian piano si facevano largo in quella che, anni dopo, tornando nella gelida foresta con la mente, avrei capito essere stata solo una mia visione del tutto personale del romanzo, a causa anche delle parole a me sconosciute e che, è bene dirlo, nel flusso del racconto erano fondamentali. Ma complice la fantasia, l’immaginazione, che subito andavano a completare quei buchi lasciati vuoti dall’acerba capacità di lettura, si trasformò in un viaggio avventuroso e mitico. Quello che insomma ci si aspetta faccia un romanzo. Ma in quei giorni di malattia il freddo lo percepivo ad ogni pagina, e non per la febbre, ma perché…

La cupa, tetra foresta premeva ai due lati del torrente gelato. Gli alberi spogliati dal vento del loro bianco manto di ghiaccio sembravano pendere uno verso l’altro, neri e sinistri, nella luce languente. Un gran silenzio regnava sulla pianura che era anch’essa una desolazione inanimata, immobile, e così solitaria e fredda da esprimere qualcosa di peggio della tristezza.