Saudade

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«Mãe, que é que é o mar, Mãe?» Mar era longe, muito longe dali, espécie duma lagoa enorme, um mundo d’água sem fim, Mãe mesma nunca tinha avistado o mar, suspirava. – «Pois, Mãe, então mar é o que a gente tem saudade?»
(«“Mamma, che cosa è il mare, Mamma?” Il mare era lontano, molto lontano di lì, specie di lago enorme, una quantità d’acqua senza fine, anche Mamma non aveva mai visto il mare, sospirava. “Allora, Mamma, mare è quello che si ha nostalgia?”»)

– Guimarães Rosa, Campo geral-

Terra rossa quanto mi manchi. Ci penso da mesi, da quando sono tornato, a quella terra così rossa, così diversa da quella che calpesto tutti i giorni. Non mi ha mai più abbandonato. E ora mentre decido di rimettere mano e scrivere qualcosa sul blog mi ritrovo a leggere ‘Seguire i pappagalli fino alla fine’, un libro di Alberto Riva. Un viaggio dentro il cuore di Rio de Janeiro, che con la mente mi riporta oltreoceano. Nemmeno a farlo apposta. Ho iniziato a leggerlo ora, ad un anno esatto (o qualche giorno in più) dall’inizio di quella fantastica esperienza che mi ha condotto a Vila Esperança, a Goias, e che si è poi condensata nel progetto Deixa Falar. Che mi ha portato nel cuore del Brasile, lontano dalle sue metropoli, e che in cambio ha preteso il mio di cuore, amore quasi incondizionato, a prima vista, per quella terra, per quella gente, quelle facce, quei suoni, quel vivere che in un modo o nell’altro si è infilato dentro con una forza a cui era difficile sottrarsi.

Nella lingua portoghese, e poi di conseguenza nel Brasile e della brasilianità esiste un termine, forse inflazionato, e forse difficilmente traducibile in altre lingue, ma che riassume quell’insieme di stati d’animo che rispecchiano quello che sto cercando di dire: ed è saudade.
Perché quando in un posto ti ritrovi non a fare il turista (distratto per natura dalle cose spesso superflue e dalle vie palesi e battute con quel fare quasi da antropologo che si limita a guardare, imponendosi il più possibile all’osservazione invece che all’interazione) ma invece a vivere giorno dopo giorno i ritmi, le necessità, la comunità, lavorando con essa, entrando nelle sua case senza timidi imbarazzi, immergendoti nel fango, residuo dei grandi temporali tropicali, e lasciando poi che il sole lo secchi sulla tua pelle, creandone una seconda, allora il tutto diventa parte di te. E’ un mondo che tenta di assorbirti, farti suo, tassello integrante di un flusso cadenzato tra i ritmi del samba e della Capoeira, tra il canto degli uccelli colorati la mattina e l’improvviso sorgere di una volta stellata che però non ammanta per la notte, ma rischiara, illumina e dischiude ancor di più. Esplosione di vita. Eppure non si ha l’impressione possa essere così. L’autunno è lì che bussa. Una sensazione che poi Paul Bowles aveva già rinchiuso con strabiliante mira in poche righe di un passo del suo Tè nel deserto:

“Se guardo morire una giornata – una qualsiasi – ho sempre la sensazione che sia la fine di una intera epoca. È l’autunno! Potrebb’essere addirittura la fine di tutto, ecco perché detesto i paesi freddi, e amo quelli caldi, dove non c’è l’inverno, e quando scende la sera hai come l’impressione che la vita si schiuda, invece di chiudersi.”

E così ripenso che un anno fa, esattamente, cercavo di inerpicarmi lungo il fianco della lingua portoghese, provando a capire che cosa fosse quel mondo fatto di frutti succosi, suoni ipnotici, facce scavate e allo stesso tempo così giovani, facce a cui era impossibile imputare un’ età precisa. Come se il tempo le avesse congelate in uno stato di perenne non sono nemmeno io cosa. Un anno fa, dentro la scuola di Vila Esperança, per raccontare un piccolo universo così lontano ma che mi era impossibile non sentire così vicino. Un microcosmo che già dopo poche ore mi sussurrava all’orecchio come un canto di Sirena. Attirandomi. Nessuno spazio, in quel fazzoletto di terra rossa, per il superfluo. Ma tutto così armonicamente incastrato nelle necessità che si fanno essenziali, umili, lasciando spazio al godimento della semplicità, della vita. Piedi scalzi nel quilombo. Il contatto con ciò che sta sotto e ti sorregge. Frustate di palmi sulla pelle dei tamburi e sulla corda del berimbau e il frinire tutt’attorno nell’aria dell’imbrunire, in un litigio musicale perenne tra la fanfara imponente delle cicale e i suoni arcaici di chi, in un angolo della città, si radunava in cerchio mettendo in scena una roda de Capoeira o di Samba. Un tutto così autocompletante, circolare, disarmante. Un pugno in faccia che mi ha lasciato tramortito ancora mesi e mesi dopo il mio ritorno. E il pensiero corre ancora, dopo un anno, sotterraneo come un fiume che cerca, nei giorni che scorrono, il punto più fragile per emergere in superficie e inondare il tutto di sensazioni riportando nella corrente il canto di quella Sirena: «voltar pra mim! Voltar pra mim!».

Tornerò!

Eu sinto falta da terra vermelha! O quanto eu sinto sua falta, terra vermelha!

Persone illuminate

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Forse qualcuno di voi sa che qualche mese fa, con Emanuela, sono andato in Brasile per conoscere e provare a raccontare, con Deixa Falar (letteralmente Lascia Parlare), un progetto: l’ Espaço Cultural Vila Esperança, che è nato come sociale con l’intento di coinvolgere, rafforzare e far emergere le fasce più deboli, creando un contesto di comunità. Poi nel tempo pur mantenendo lo scopo originale ha incentrato molte delle sue energie sulla scolarizzazione e sulla integrazione. Oggi, in un Brasile profondamente mutato (almeno in superficie) quella comunità è ancora lì. Cresciuta e in costante evoluzione. Di quella esperienza, il cui racconto continuiamo a portare avanti qua nei momenti di tempo libero, ho parlato poco in questo spazio. Così ho deciso di rimerdiare.

E lo faccio partendo proprio dal racconto in viva voce di uno dei fondatori, Robson Max de Oliveira Souza, una persona estremamente illuminata, di quelle che con piccoli gesti ma enorme forza d’animo e volontà è riuscita assieme ad altri ha creare un piccolo gioiello. Tutto è partito, come associazione, ufficialmente nel 1994 (ma l’embrione è del 1989) nella città di Goiás quando io ero ancora un decenne e in Italia qualcuno scendeva in campo. Venti anni dopo sono ancora lì, a portare avanti la loro missione tra mille difficoltà ma ancor più soddisfazioni anche grazie all’aiuto di un gruppo di amici italiani. Noi nel nostro piccolo speriamo in qualche modo di essere riusciti, e di riuscire ancora dare una mano. Intanto vi segnalo che da qualche giorno, in concomitanza con l’inizio del nuovo anno scolastico è nata la loro fanpage, quindi se volete andare a curiosare la potete trovare qua.

Detto questo vi lascio alla chiacchierata che abbiamo fatto con Robson, in una sera piovosa dentro la sua cucina, durante la nostra visita di settembre.

 

Cora Coralina, la poesia nella casa oltre il ponte

Ho chiuso gli occhi ed ho chiesto un favore al vento: porta via tutto ciò che è inutile. Sono stanca di valige pesanti. Da adesso in poi solo ciò che entra nelle tasche e nel cuore.    – Cora Coralina –

E’ settembre, appena l’inizio. Quando atterriamo la primavera sta sbocciando, lì all’altro capo dell’oceano. L’ aria è umida ma non troppo, nonostante sia mezzogiorno in quel momento all’equatore. Dopo 3 aerei e un lungo viaggio in corriera riusciamo finalmente a sgranchirci le gambe. L’ingresso di Vila Esperança è davanti a noi, appena una manciata di metri oltre il centro storico di Goiás. Il giorno dopo veniamo svegliati alle sette della mattina e trascinati in un lungo ma rapido tour della cittadina che porta sulle spalle un’ architettura di epoca coloniale lievemente logorata dal tempo, ma tutto sommato in un più che discreto stato. E’ l’inizio della nostra permanenza brasiliana. Camminiamo per un paio d’ore, ci arrampichiamo fin su per la scalitana della Igreja de Nossa Senhora de Aparecida.

In spalla lo zaino con i computer, la macchina fotografica e la telecamera. Dopo il tour inizieremo a lavorare al nostro progetto nella scuola Escola Pluricultural Odé Kayodê che fa parte della struttura di Vila Esperança. Sudiamo, siamo sfiniti, ma troviamo comunque la forza di restare affascinati da quel paesaggio, nel relativo silenzio di una prima mattina primaverile. A riposare seriamente ci penseremo una volta tornati in Italia. Questo è chiaro fin dalla prima ora. Attraversiamo un ponte in legno che scavalca il Rio Vermelho, corso d’acqua che segna come graffio sulla mano la città. Oltre il ponte, appena alla sua estremità c’è una casa che si affaccia a strapiombo proprio sul rio. All’inizio non so, non sappiamo. Passeremo molte volte durante il nostro soggiorno davanti a quella casa; che con suggestione quasi di favola si specchia sul fiume nelle sere illuminate dalla luna. Sul davanzale di una delle finestre che si affaccia sull’acqua ci osserva, e ci osserverà fino alla nostra partenza, ed è ancora lì che osserva (ha le sue sembianze, ma lo scoprirò dopo),  una Namoradeira. E’ una statua di dimensioni variabili, raffigurante una figura a mezzo busto quasi sempre femminile, tipica di queste zone. Ci accorgeremo più avanti che molte altre osservano la placida vita del posto, affacciate ai loro davanzali, come custodi del tempo e delle cose che lo attraversano.

Ho sempre amato gli scrittori, le loro storie, e più di tutto i loro luoghi di vita e di narrazione. Forse perché, ho sempre pensato: in qualche modo essere lì, sostare nel medesimo punto è un po’ come entrare a piè pari nella loro mente, nei loro occhi. La domanda rimane poi sempre la stessa: avrei visto, avrei provato le medesime cose? Oppure no, avrei osservato con lo sguardo mediato dalle loro pagine, plagiato dalla mia interpretazione di ciò che volevano dire? E’ una domanda che pongo, ma a cui non si da risposta. Non si può. Quel giorno per la prima volta passavo davanti alla casa, in mezzo ai luoghi, di quella che poi ho scoperto essere una famosa poetessa e scrittrice brasiliana, Ana Lins dos Guimarães Peixoto Bretas. Ma il mondo l’ha conosciuta come Cora Coralina. Con lei il procedimento è stato inverso. Mi trovavo in quei luoghi che ho sempre amato scoprire, dopo aver letto. Ma questa volta senza saperlo, senza aver mai letto nulla, senza sapere che ero al centro, nel punto di partenza della sua opera, della sua storia che poi è la storia della città di Goiás, dei suoi becos (vicoli).

Colpevoli il mare di cose che avevamo da fare, i video da montare, i post da scrivere, la vita della comunità di Vila Esperança da inalare e, per quanto mi riguarda anche una non perfetta comprensione della lingua, è finita che in quella casa io fisicamente non ci sono entrato. Ma la verità è che l’ho sempre guardata da fuori, per 36 giorni. L’ho osservata con un distacco pudico che è venuto quasi naturale. Non avevo letto niente di suo ancora, e non lo avrei fatto fino al rientro in Italia. Entrare così nella sua casa mi sarebbe parso quasi maleducato. La verità è che volevo essere invitato. E’ successo qualche mese dopo, cominciando a leggere quel che della sua opera si trovava in rete. O almeno era un inizio. Un abbozzo di un “se mi iniviti, Cora, io entrerei volentieri nel luogo più intimo, la tua casa”. Perché in tutti gli altri, inconsapevolmente ero già stato, e non avrei neppure potuto evitarlo. Ora che c’era un tacito implicito invito non sapevo come fare. Pensavo: dovrò tornare in Brasile (e ci tornerò). Dovrei trovarmi là, per entrare. Ma siamo nel 2014, e ho trovato un modo per arrivare, anche se non fisicamente, a casa sua. Su quel ponte di legno, affacciato sul Rio Vermelho. A volte, non sempre, la tecnologia aiuta.

Ci vediamo, io entro a casa di Cora Coralina.

(ps: le foto sono prese dalla rete, ho cercato le migliori per rendere l’idea. Tutte le fonti originali sono linkate sotto l’immagine)

Dal Brasile con amore… #road2esperança

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In questo periodo ho poco tempo per seguire questo blog, mi sto occupando di un progettino in Brasile assieme ad Emanuela. Il nome del progetto è Deixa Falar, se volete seguirci trovate tutti i canali social sul nostro blog. Ogni share è gradito ovviamente, se vi fa piacere. Intanto continua la permanenza brasiliana. Mi sembra di essere qua da un mese, e invece è solo da poco più di una settimana. Sono partito un po’ presuntuoso, già imparato come si dice, ma non si nasce imparati e questi piccoli ragazzini mi stanno insegnando più cose di quanto avrei immaginato. Ce n’è uno che avrà tra i 3 e 5 anni che mi sgrida sempre: “fala direito” mi dice, parla giusto, diretto. I Ha ragione, ma io sono una capra. Ieri giornata intensissima all’azienda agrigola assieme ai bambini di Vila Esperança. E si, ho munto anche una mucca (se quello che ho tentato di fare si può definire mungere) in una giornata, quella di ieri, tra educazione e rispetto ambientale, due punti sui cui alla scuola puntano tantissimo. #road2esperança

Verso il Brasile, ovvero cosa andrò a fare nei prossimi 30 giorni

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Ci siamo, due giorni e poi ci imbarcheremo sull’aereo alla volta del Brasile. La meta, per la precisione, è Goiás (o Goiás Velho). Una piccola cittadina situata nello stato di Goiás nel centro del Brasile.
A partire per questo viaggio saremo io ed Emanuela, ma non sarà una vacanza. Bensì un esperimento, anzi un progetto che prende il nome di Deixa Falar, ovvero ‘lascia parlare’. Durante il nostro soggiorno, che ci terrà lontani dall’Italia per poco più di un mese, saremo ospiti di Vila Esperança, un progetto che è nato dalle attività di AIFO in Brasile.

Il mondo è pieno di piccole e grandi storie da raccontare, e i nuovi mezzi permettono di farlo con relativa semplicità. Ma non volevamo andare là per raccontare semplicemente quello che avremmo visto. Così abbiamo pensato che una buona idea sarebbe stata quella di farlo raccontare direttamente proprio a quelle persone che nel progetto ci lavorano, o di cui sono destinatarie. Quelle insomma sulla cui vita di tutti i giorni, in un modo o nell’altro, il lavoro dell’ Espaço Cultural Vila Esperança incide.

E’ una cosa che nessuno dei due ha mai fatto, ma la voglia di provarci era tanta che ci siamo lasciati ogni indugio alle spalle e abbiamo detto SI, facciamolo. Internet e le sue reti sociali saranno il nostro megafono, anzi il loro, in una sorta di diario di viaggio comune che si riempirà mano a mano giorno dopo giorno.

Se vorrete seguirci per scoprire (e perché no, anche interagire) assieme a noi come andrà a finire potete farlo attraverso i canali social e il blog che abbiamo creato apposta per l’occasione. Trovate tutto a questo link.

Vi spammo in coda anche la fanpage su Facebook e Twitter

ps: abbiamo deciso anche un hashtag per tentare di raccogliere la conversazione in rete. #road2esperança (valido a social unificati)